Federico Cavallini

 

di MATTIA PATTI

 

La percezione della luce implica la nozione di tempo. Perfino il lampo più improvviso, nel suo rapido passaggio, ci rende certi che un istante, pur piccolo, è trascorso. La ricerca di Federico Cavallini s’innesta proprio su questo piano, si attiva entro i confini che delimitano il processo di emissione luminosa.

Tutto è nato dall’osservazione di alcuni ordinari fenomeni naturali, registrati nel chiuso d’un giardino di città. In uno spazio cinto da mura amiche, segnato dal ciclico pendolare dei raggi del sole, Cavallini ha infatti preso a studiare i riflessi, gli abbagli intensi, il lento stringersi e dilatarsi delle zone d’ombra. In questa sorta di en plein air domestico e familiare egli ha cautamente, giorno dopo giorno, scovato alcuni punti sensibili nella natura, aprendo di fatto una feconda linea di ricerca. Fin da subito la sua attenzione è scivolata sulla luce, sul modo in cui essa raggiunge gli oggetti. L’opacità dei corpi, la loro trasparenza e, ancora, la capacità di assorbire o rifrangere i colpi di luce: in questa fase aurorale nient’altro sembrava interessare Cavallini. La messe di appunti, di conoscenze faticosamente acquisite trovò di lì a poco la prima via d’espressione. Sfruttando l’azione ossidante della candeggina, infatti, Cavallini ha iniziato a lavorare su enormi fogli di carta colorata, spruzzandoli dapprima con violenza, per mezzo d’una siringa, poi operando più lentamente, attraverso lunghi e controllati impacchi. Dalle prime vivaci esplosioni di luce si è così passati ad immagini più composte, cariche di fascino e contrassegnate da graduali modulazioni. Qui il processo di illuminazione dei corpi naturali è come ricostruito all’interno dell’opera, con un linguaggio che non è propriamente pittorico e che sta in bilico, piuttosto, tra diversi limitrofi campi: la pittura e, insieme, l’incisione e la fotografia. Il cartoncino colorato Fabriano, ben presto eletto ad esclusivo supporto di questi interventi, è eroso dall’ipoclorito di sodio, che opera una vera e propria morsura. Il procedimento è analogo a quanto avviene sulle matrici incisorie: i fogli sono aggrediti dal bagno di una sostanza acida che sottrae materia generando, al contempo, un’immagine; d’altro canto, la durata dell’applicazione della candeggina determina il grado di luce, esattamente come, al variare del tempo di immersione nell’acido, sulla lastra di zinco o di rame si produce un solco più o meno profondo. Altrettanto evidente è la parentela con la fotografia, giacché la superficie del cartoncino precolorato è sensibile alla luce così come la carta fotografica, sulla quale in camera oscura viene proiettata l’immagine attraverso un ingranditore. Chiarito il procedimento esecutivo, non v’è dubbio che il dato temporale costituisce la struttura portante di questo lavoro. L’affiorare dei corpi, delle macchie e delle linee di luce dal fondo scuro della carta avviene lentamente, poco a poco, sotto lo sguardo vigile di Federico Cavallini. L’opera si forma durante questa attesa, in un arco di tempo calcolato con la massima precisione.

Il repertorio di immagini generate dalla candeggina ha fin dal primo momento mantenuto un fortissimo legame con la natura. Non appena la sapienza tecnica ha permesso a Cavallini di governare l’azione dell’acido, sulle carte sono apparsi elementi vegetali, fronde percosse dal vento, superfici terrose graffiate da una intensa luce radente. Le immagini restituiscono una affascinante e profonda eco di quanto gli occhi percepiscono nello spazio naturale. Il giardino, quel piccolo cosmo a portata di mano, si è fatto tanto vicino da rivestire come una membrana l’intero sguardo di Cavallini. Uno schermo, insomma, che può essere illuminato su entrambe le facce: all’esterno, ove s’esercita l’azione dei fenomeni naturali, e all’interno, attraverso le luci della coscienza. È esattamente quanto avviene chiudendo le palpebre, quando il campo visivo non si spegne, attraversato dai fantasmi delle cose viste che navigano nel liquido lacrimale. Talora prevale questa dimensione interiore, e la formulazione di immagine s’allontana dal referente di natura: sulla carta s’annodano macchie, si alzano calde onde di fuoco, come avviene ad esempio nella serie di opere esposte nel 2007 alla Nuova Pesa di Roma. Su queste carte, ad una altissima temperatura di colore, appaiono brevi segni scuri, grumi neri che galleggiano sulla superficie, sospesi in un magma di luce. In altre opere più recenti l’immersione nel mondo naturale torna invece a farsi esplicita, preponderante. Sulle grandi carte è restituita l’epidermide di una foglia, pantografata fino ad invadere ogni angolo del quadro. La gamma cromatica di questi lavori s’attesta spesso su toni verdastri, a marcare con forza ancor maggiore l’origine, chiara e semplice, di queste apparizioni. Ma quel che più colpisce è ancora una volta il dato luminoso. La carta emette tutta la carica di luce trasmessale attraverso la morsura della candeggina. La nervatura delle foglie invade silenziosamente lo spazio, si distende con tutto il suo fascino di fronte ai nostri occhi fino ad abbracciare gli estremi margini del supporto.

Proprio le foglie stanno al cuore dell’altra importante facies della ricerca di Federico Cavallini, anch’essa generata da lunghe sedute in mezzo alla natura. L’osservazione di un piccolo albero di pero colpito da una malattia ha indotto infatti Cavallini a raccoglierne le foglie, che, erose dal male, sono ridotte a esili scheletri di fibra lignea. Riconoscendo a ciascuna di esse una specifica individualità, egli ha cominciato a compilare un sorta di enorme registro, fatto di fotografie e di brevi annotazioni. Ad ogni foglia è attribuita la dignità di una vera e propria opera d’arte: sfogliando il volume, che cresce di giorno in giorno, mano a mano che Cavallini compila le nuove pagine, la malattia della pianta acquista un senso sempre più profondo. Lo scorrere del tempo, la fragilità dell’esistenza, l’idea di un’anima leggera – sottilissima come la lamina corrotta delle foglie che sono state raccolte e catalogate – sono gli aspetti cruciali di questo discorso. L’incessante cadere e stratificarsi delle foglie si traduce così in una continua crescita del racconto, di cui Federico Cavallini si giova anche in altro modo. I reperti materiali di questa storia, infatti, sono stati cuciti assieme, sono stati trasformati in un ampio e leggerissimo tessuto. Il risultato di questo paziente lavoro, attraverso il quale le foglie malate sono state incollate le une al fianco delle altre, è un corpo luminoso, un velo trasparente, un affascinante sudario vegetale. La sacralità di questo oggetto, che – per sua natura – impone le cure della più fragile reliquia, è stata presto riconosciuta da Cavallini; e pertanto, da qualche tempo, egli ha cominciato ad esporlo, spesso all’interno di chiese. Così ad esempio è accaduto a Roma, nel Mausoleo di Santa Costanza, ove la maglia di foglie brune, distesa su un telaio metallico perfettamente rettangolare, è stata issata come una antica pala dipinta sopra l’altare. A differenza delle grandi tavole, impreziosite dal fondo oro o dalle ricche distese di lapislazzuli, il sottile piano di foglie scopre fin dal primo istante la propria semplice e povera natura, il proprio sofferente messaggio, e rimanendo corpo vivo permette alla luce di attraversare la propria pelle. Le foglie svolgono un ruolo simile a quello delle tessere di una vetrata, ma il loro distendersi nel cuore dell’architettura, come un interno diaframma, genera un riverbero luminoso che invade l’intero spazio del mausoleo. Simile è il discorso costruito a Ceglie Messapica, nelle chiese di San Gioacchino e di San Domenico. Qui il sottile schermo è stato calato da Cavallini come uno stendardo entro l’area presbiteriale, attestandosi in una posizione tale da offuscare la visione dell’altare. La cornice, diversamente da quanto era accaduto nella precedente occasione, si apre obliquamente come una croce, a misurare lo spazio in profondità, riflettendo in tal modo l’articolazione barocca della chiesa. Ad una posizione più elevata, più vicina all’intensità della fonte luminosa, Cavallini è infine tornato nell’ultima sua installazione, montata all’interno della splendida basilica di Santo Stefano Rotondo al Celio, in Roma. Come già era avvenuto in Santa Costanza, la trama di foglie è sospesa, in una sorta di mistica ascensione, esattamente sopra l’altare. Non v’è cornice, però, a sostenere l’opera, che gravita trattenuta da due sfere bianche che galleggiano in un punto altissimo della chiesa. I due palloni di plastica riflettono significativamente la luce delle finestre, che corrono fitte lungo tutto il perimetro dell’architettura. Così facendo, essi condensano l’abbagliante luce che entra dall’esterno, esaltando al contempo il respiro circolare dell’intero spazio. L’impalpabile mosaico di foglie che si distende poco più in basso, scendendo fin quasi a raggiungere i nostri occhi, non potrebbe avere migliore cornice. La leggerezza di questo corpo vegetale, scarnificato dalla malattia e dall’azione della luce, palpita di fronte al nostro sguardo, offrendosi come una inaspettata e concretissima epifania. Il grande catalogo, aperto come un codice da consultare, è lì, a pochi passi, su un tavolo, a ricordarci che il ciclo di raccolta delle foglie, e così anche la malattia, è tuttora una vicenda aperta, in evoluzione.

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