NICOLA PERULLO
PROTOESTETICA DELLA VITA
SU ESTETICA DELLA FAME DI FEDERICO CAVALLINI
Pare strano che tuttora molti pensino alle possibilità di un’estetica dell’alimento solo nei termini di una percezione visiva: forme, colori, architetture. Da qui, il rapporto presunto tra estetica culinaria e arte figurativa. Questa posizione non è solo inadeguata e riduttiva, ma fuorviante. Estetica non significa innanzitutto sapere visivo, ma sapere sensibile: l’estetica è originariamente una aesthetica, una scienza dell’aisthesis, della sensazione e della percezione. Il verbo greco aisthanomai – io percepisco – ha a sua volta nella radice sanscrita aisthou – io respiro – la sua origine. Allora, se l’estetica è solo in secondo luogo percezione visiva, occorre prendere la questione altrimenti, e in modo più radicale. Respirare è vivere, e per vivere e respirare dobbiamo nutrirci. Senza cibo non c’è vita, pneuma, respiro. Dunque un’estetica dell’alimentazione ha innanzitutto nella nutrizione e nella fame il primo e ineludibile suo riferimento.
Per questi motivi mi sono subito avvicinato con grande interesse all’opera di Federico Cavallini. In particolare, attraverso “Estetica della fame” – composta da due lavori, “Ho fame” e “Anatomia Companatica” - ho scoperto una totale aderenza a quanto ho cercato di elaborare con la mia filosofia negli ultimi anni. Cavallini ci propone un’estetica del cibo alternativa a quella elaborata dal paradigma dominante.
Ho proposto una filosofia che si caratterizza per quella che definisco strategia di abbassamento. Cerco di elaborare non (solo) una filosofia del cibo ma col cibo. Con ciò intendo un pensiero che si ri-disegna e si mette in discussione attraverso l’esperienza, specifica e irriducibile, dell’incorporazione fisica. Il cibo è l’unico pezzo di mondo – l’unica porzione di materia – che realmente incorporiamo, secondo ritmi e cadenze quotidiane e ordinarie. Ora, questo lo hanno notato molti filosofi - per limitarci solo ad alcuni tra i più noti, Nietzsche, Feuerbach, Dewey, Lévinas – anche se mai in modo sistematico. Il cibo – come nutrizione, gastronomia, dietetica, assimilazione, metabolismo – ci offre non soltanto occasioni di riflessione, ma un proprio modello teorico ricco e quasi inesauribile che investe l’etica e l’estetica nel loro plesso incessante come vita quotidiana. L’ordinario e il quotidiano non sono banali e facili: una filosofia col cibo significa una filosofia dell’ordinario, ma un ordinario dinamizzato da una “sguardo” diverso. Una prospettiva che si sforza di non pensare attraverso la vista e recupera altre dimensioni percettive. Una percezione non soltanto ottica, ma anche aptica: il mondo non lo si deve solo osservare, lo si vive a contatto, lo si introietta e lo si assimila nella consapevolezza di questa continua relazione tra interno ed esterno.
In Estetica della fame l’arte non è negli oggetti ma nei processi, tanto nelle tracce visibili quanto in ciò che scompare alla vista moltiplicando energia vitale. Federico Cavallini ha predisposto una parte dell’arte, lavorando a partire da un’intuizione i materiali organici – lieviti, farine, acqua – e non organici in modo da realizzare porzioni di mondo edibile. Nel corpo a corpo con i materiali, nel lavoro, si plasma un primo risultato. Ma poi c’è il tempo, la finitezza e la caducità delle cose, soprattutto in queste opere c’è l’arte metabolica degli esseri animati che sono accorsi al banchetto e consumano i fogli candidi, le forme scheletriche e i loro contenitori. Milioni e miliardi di minuscoli animaletti, moscerini, termiti, che proliferano trasformando l’ “opera”, modificandola, elaborandola e vivendo grazie ad essa. A mio giudizio, qui non c’è nulla di “concettuale”. C’è materia, relazione tra interno e esterno, assimilazione, digestione, metabolizzazione. Chiamo proto-estetica questa dimensione dell’artistico che si relaziona con l’alimento e che riguarda tanto il fare quanto l’assimilare. Una protestetica della vita, perché vivere vuol dire comprendere, cum-prendere, afferrare, consumare, assimilare, espellere. È l’essenza più profonda del convivio Dentro queste casse di legno si banchetta sempre, ma non si rappresenta un banchetto: l’arte avviene nel mentre il processo metabolico è in corso. Quando le casse vengono aperte ed esposte, è solo una temporanea esposizione della vita che si mette in mostra quel che accade. Richiuse, tutto continua e lavora. In queste opere, vorrei aggiungere, si concretizza poi anche la possibilità più estrema di una cucina – perché questa estetica della fame è anche una cucina - come arte. Un’arte liberata dal dominio della percezione visiva, che pure è fondamentale e si lascia apprezzare per l’eleganza dei colori. Ma la percezione dell’opera è davvero multisensoriale ed ecologica: tatto, olfatto e gusto sono implicati per più esseri viventi, umani e non umani, in un insieme complessivo dove tutto è in rapporto. Il cibo non si consuma e non svanisce, piuttosto si trasforma e ci trasforma. “Estetica della fame” ci regala il superamento dell’equazione pregiudiziale: oggetto permanente = presenza visibile, e la prospettiva formale che la sostiene. “Ho fame” e “Anatomia companatica” permettono di valorizzare piuttosto gli aspetti vitali e metabolici, la trasformazione e il cambiamento, perché il cibo lascia sempre traccia anche se non si vede.
Estetica della fame rimanda all’artista, non in quanto autore ma in quanto artefice. La sua firma non suggella la proprietà definitiva sull’opera, realizzata da tanti attori. Questa cucina della vita è dunque opera di un artefice come soggetto molteplice, implicato dalla coltivazione del cibo fino al suo consumo. E l’arte si realizza quale artificio plurale di una pratica concreta.