L’installazione “Dietro i vetri” mi interessa particolarmente, perché come fotografo sono abituato a guardare attraverso l’obiettivo della fotocamera e quindi attraverso un filtro. Ci puoi spiegare meglio questa tua idea di guardare attraverso i filtri?
L’idea iniziale era quella di ricreare all’interno del padiglione un ambiente che in qualche modo filtrasse l’immagine e quindi ciò che viene percepito tra quello che vi era dentro e ciò che rimaneva fuori. Lo consideravo un ambiente per “esibizionisti pentiti”, ovvero qualcuno che ha bisogno di farsi vedere, farsi notare, ma sempre in modo mascherato, senza rischiare niente rispetto ad un esibizionismo meno filtrato, in questo caso, dal vetro. Pensandoci a posteriori può esserci qualche riferimento anche alla comunicazione social, alla necessità delle persone di esibirsi attraverso la diffusione distorta, perché autoprodotta, di se stessi. Anche l’artista vive sempre in questo continuo stato di ambiguità tra azione e pentimento, tra ostentazione e mascheramento. Questo è diventato il doppio filtro del vetro: un’altra trasparenza che è però sempre un pò macchiata.
Rispetto ad altre tue opere, per le quali utilizzavi materiali organici, l’idea e le caratteristiche di trasformazione in questa installazione non si riescono a cogliere del tutto. Quale differenza c’è tra questo tuo lavoro e quelli realizzati in precedenza?
Non c’è molta differenza tra i lavori precedenti e questo. L’unica differenza che possiamo trovare è l’uso del supporto: la plastica come supporto (pensata per il padiglione) è utilizzata come se fosse una tela trasparente che permette di vedere oltre. Il resto del lavoro è tutto molto deperibile come ad esempio le aureole di pasta dei testaroli genovesi, oppure altri oggetti di plastica sono sempre in qualche modo lavorati, “maltrattati” per dare l’impressione che anche quelli si stanno deteriorando. Ciò che è cambiato rispetto al mio lavoro precedente è l’utilizzo di un supporto plastico, un materiale che non deperisce con il tempo.
In ogni caso ho iniziato a realizzare altri lavori con una serie di oggetti di plastica che hanno una deperibilità che non è fisica ma è funzionale, ovvero tutti oggetti che si trovano in commercio ora (come negozi di tipo tiger) o che comunque hanno sempre questa caratteristica di una durata molto limitata di funzionalità (una sorta di “usa e getta” che non viene venduta come tale) a discapito di un accumulo di plastica infinito. Quindi, in realtà, ho iniziato a ragionare su un concetto di deperibilità più funzionale che materica.
A proposito di idea di permanenza, nel tuo lavoro sembra che tu voglia sempre sfidare certe consuetudini del sistema dell’arte. Nel mondo dell’arte si pretende un’opera d’arte durevole e soprattutto con un valore economico. I tuoi lavori invece deperiscono e si trasformano. C’è una volontà critica verso il sistema economico dell’arte?
No, è un aspetto del quale non mi sono mai interessato. Il mio lavoro è molto fisico e manuale e utilizzo sempre materiali che mi piace toccare e vedere come si trasformano. Faccio dei lavori che si inseriscono difficilmente in contesti che vanno dal museo, al collezionismo e alla conservazione. Mi è capitato di fare dei lavori che successivamente sono finiti in un sistema economico di collezionismo, come ad esempio “Anatomia companatica”, un lavoro fatto di una quantità indefinibile di sculture di pane, acquisito da un’importante collezionista privato, che si è assunto il rischio di una ipotetica sparizione dell’intero lavoro che non produceva altra economia, se non quella dell’acquisto momentaneo. Il lavoro è stato infatti esposto ma dopo poco tempo ha iniziato a deteriorarsi, producendo insetti che invasero l’intera collezione, per cui è stato chiuso in una scatola, probabilmente per sempre. In questo caso però il collezionista diventa anche co-autore perché soltanto attraverso l’acquisto si compie il processo anomalo di creazione-acquisto-distruzione.
Ho sempre pensato ad un lavoro che potesse divertirmi, un approccio al lavoro che mi desse gioia e divertimento anche se spesso, nel processo di elaborazione, i tempi sono diventati alienanti proprio per questa caratteristica della durata del lavoro, cioè dal punto di vista fisico, c’è sempre stata una profusione di ore lavorative enorme. Inoltre, in un altro lavoro (a cui lavoro dal 1997) fatto con le foglie provenienti da un unico albero di pero, c’è stata una processualità che è cambiata nel tempo e che involontariamente mi ha legato a questa pianta che, nel tempo, ho iniziato anche ad odiare, perché avevo deciso all’inizio del progetto di procedere fino alla morte della pianta o alla mia.
Puoi raccontarci di come è nato e in cosa consiste il lavoro delle “scatole”?
E’ nato in occasione di un progetto espositivo per la Fondazione Volume di Roma (mai realizzato). Dovevo riportare nello spazio espositivo tutto il mio studio inscatolato, facendo diventare così lo spazio espositivo un deposito merci, perché il mio lavoro non era più visibile. Nell’occasione di quella mostra, il mio lavoro, divenne, per me, un vuoto di operatività, perché ho inscatolato tutto, anche gli attrezzi da lavoro. Nell’inscatolare (come si fa di consuetudine per un trasloco o cambio di armadio) scrivevo cosa c’era in ogni singola scatola. Da questo processo di catalogazione ho ripensato alla situazione dell’artista (come me) in un contesto di provincia. Infatti, ho deciso di agire così successivamente alla visita di alcuni collezionisti di provincia (dove l’aspetto economico è tremendo, perché ognuno ricerca un po’ di speculare il più possibile…). Questo aspetto speculativo si vede molto di più in un contesto piccolo rispetto al grande collezionismo. In quell’occasione mi chiesero se avessi dei lavori piccoli e, dato che non li avevo, ho iniziato con questa finta catalogazione di lavori piccoli che consistono in alcune scatole con su scritto lavori piccoli per andare incontro al mercato di provincia. Lavorare così scatole era un processo antieconomico, perché scrivevo questa cosa su tutte le facce delle scatole e si venne a creare una pila gigantesca e paradossalmente un lavoro enorme. Era, inoltre, un aspetto antieconomico anche per l’impiego del tempo, non mi piace parlare di spreco di tempo ma in questo caso era un impiego eccessivo che non produceva un’economia vera e propria, se non una microeconomia del tutto mia.
Prima facevi riferimento alla paura dell’artista quando “esce” dal suo studio per presentare quello che ha fatto. A questo proposito, il tuo studio non è solo uno spazio di produzione, ma un deposito del materiale che diventa opera. Qual è il ruolo o il significato di questo spazio per te? È uno spazio di transizione oppure un “nido”?
E’ uno spazio di protezione. Sin dall’inizio ho sempre avuto la necessità di avere uno spazio dove c’è un pò questo limite di inscatolamento e che in qualche modo mi sono sempre portato dietro. Questo dipende anche da una questione pratica, perché io non ho mai prodotto molto, non ho fatto tante mostre e questo mi ha portato a lavorare la maggior parte del tempo in un unico spazio che era quello dello studio e non in spazi espositivi; questo è stato anche un fatto contingente rispetto alla mia storia professionale, perché molto probabilmente se dall’inizio avessi avuto molte mostre durante l’anno, avrei avuto una pratica di lavoro diversa.
Nel tuo studio selezioni i materiali, li classifichi molto attentamente e questo si potrebbe percepire già come opera d’arte. Questi processi e materiali però li utilizzi per creare delle opere vere e proprie. Tuttavia, tutto questo accumulo è materiale provvisorio che utilizzi per creare lavori che sono anch’essi provvisori. La tua opera quindi sta nella provvisorietà, non ha mai una stabilità?
No, è sempre un lavoro acceso ed inconsciamente faccio di tutto per far sì che sia così.
Questo è il risvolto, di cui parlavi, in merito a questa mostra: anche gli scarti del processo artistico fanno parte dell’opera. Non c’è una fine e non c’è un fuori?
Quello che è rimasto fuori è diventato opera. Ciò che per me è importante in merito a questa mostra è ricordarci di quello che noi gettiamo sia a livello mentale che di ricerca e dei ricordi. Questo è una parte importante soprattutto nell’aspetto materico, fisico e sociale. In merito al conservare la spazzatura, che spesso come pratica è considerata una patologia (ci sono tante persone infatti che non riescono a buttare la spazzatura e conservano di tutto), io credo che sia importante e giusto conservare. In questa mostra, ad esempio, ci sono i sacchi della spazzatura di plastica trasparente proprio perché, solitamente si tende a mascherare ciò che si butta con delle buste scure, perché lo si ritiene un contenuto molto intimo e il fatto di mostrare ciò che vi è dentro i sacchetti, così apertamente, è un modo di mostrarsi agli occhi degli altri. Credo che il futuro non sia nel riciclo, il quale penso sia un aspetto di “rassicurazione” per la società. Molti pensano di poter consumare sempre di più solo perché ci sono le tecniche di riciclo, ma quello non è il futuro. Se si cerca un filo conduttore della mostra è proprio questo, aldilà del fatto che poi si tratta di arte visiva e che ci sia un ragionamento che viene fatto per forme e colori.
Al riguardo dello spreco e del consumo: nel tuo lavoro quanto è importante la documentazione?
Non è così importante anche se, in alcuni casi, ho fatto una documentazione quasi ossessiva del materiale, come ad esempio i lavori che ho realizzato con le foglie, dove ho ricreato nel tempo degli oggetti che si sono trasformati. Una cosa che ritengo molto importante è la conservazione di ciò che successivamente viene riciclato. Quindi in questo caso l'ho catalogata per poi utilizzare la nervatura legnosa come materiale scultoreo. Questo è stato l’unico caso, perché mi piace che il lavoro sia quello e in quel momento, poiché credo che la troppa documentazione tolga quel mistero che c’è dietro ogni opera e negherebbe l’interpretazione individuale.
La documentazione la faccio sempre in modo (spero) poetico. Non c’è una vera e propria documentazione o archiviazione, è tutto su un livello più superficiale che però penso vada molto bene per quello che faccio. Non c’è mai niente di troppo programmato nel mio lavoro.
Dicevi che questi materiali che usi provengono dalla tua famiglia. C’è qualche storia famigliare dietro?
Da un po’ di tempo ho iniziato a ripensare alcuni aspetti dell’adolescenza attraverso lo studio e la trasformazione degli oggetti-reliquia familiari. Ho cercato di deformare gli oggetti del mio passato per plasmare la mia stessa memoria su tale deformazione. Tuttavia, ho utilizzato cose che mi piacevano come gli oggetti di mio nonno. In ogni caso erano tutti materiali con una certa empatia e non li ho scelti esclusivamente perché fossero della mia famiglia.
Inoltre, credo che il mio modo di pensare, molto visivo, sia dovuto al fatto che io non abbia mai letto abbastanza: da piccolo mi spostavo tantissimo con la mia famiglia nei vari ippodromi e gli unici libri, o meglio riviste, che c’erano in casa mia da piccolo erano quelli sui cavalli. All’ippodromo tutti i sensi sono amplificati: dalla vista, agli odori, all’udito. Da questo punto di vista credo che io sia stato abituato sin da piccolo a questa abbondanza di stimoli sensoriali.