FEDERICO CAVALLINI

 

"quando si organizza una mostra in un appartamento, il termosifone è uno dei pochi spazi liberi dove potersi appoggiare. Non ricordo i dettagli dell'incontro con Gabriele e non ricordo neanche bene come arrivammo a parlare di capelli e di calvizie. E lo scambio, molto probabilmente, fu più una proposta buttata lì di Gabriele che mia. Mi ricordo però che io pensai immediatamente ad una possibilità concreta di realizzare una collaborazione in cui il dono di una parte del mio corpo ad un altro artista potesse essere notevolmente più rilevante di un qualsiasi scambio intellettuale"

 

 

GABRIELE GERMANO GABURRO

 

Invio questa mail anche a Federico, così che, laddove lo creda, possa compendiare i miei ricordi e i miei pensieri.

 

Prima di venire alle tue domande, vorrei soffermarmi sul titolo di questa collaborazione, che intreccia i nostri nomi e cognomi così come il “nostro” materiale organico (più di Federico che mio, visto che io sono pelato): “Gabriele Cavallini o Federico Gaburro”. Mi piace molto questo titolo, che non è il primo ma l’ultimo apparso. La collaborazione è nata senza titolo, il titolo è seguito dopo, tardivamente, anzi direi che matura proprio ora, ed io lo apprendo con piacere leggendo la tua mail. Forse può sorprenderti che il titolo sopraggiunga così in ritardo sul resto, in realtà io credo sia piuttosto naturale, dato che il titolo va a inquadrare un processo, in questo caso nato fuor di quadro, senza frame concettuale o progettuale. Come verrai ad apprendere leggendo, questa collaborazione è nata da un caso contingente e imprevisto. Il primo titolo che ha cominciato a nominarla è stato “Gabriele Cavallini”. Il secondo, più lungo: “gli artisti che hanno un pò devono aiutare gli artisti che hanno un pò meno”. Il primo proposto da me, il secondo da Federico. Quest’ultimo, com’è evidente, lascia intendere senza dire, omettendo, con un velo di sottile ironia, il “che cosa” del pò e del pò meno. Lo lascia latente, senza renderlo esplicito, attirando l’attenzione, com’è inevitabile, sul punto inespresso di quella latenza, che allude a una complicità tra artisti. “Essendo data” (con esordio alla Duchamp, il quale in vita non lavorò mai) la precarietà della condizione d’artista, il titolo pare alludere a un che di economico, mentre invece, venendo a conoscenza del materiale di scambio tra me e Federico, si scopre che il pò e il pò meno non sono soldi, ma capelli. Una transazione non economica, ma organica.

 

Finora, come avrai notato, mi sono astenuto dal definire il genere di questa collaborazione. Non ho ancora determinato, compromesso il suo “qualcosa” in questa o quell’etichetta: non ho parlato genericamente di “lavoro” (termine quantomai equivocabile per noi artisti, produttori di nulla, “much less than useless”...), di “opera” (non mi dilungo davvero sul feedback retorico di questa parola, sulla “schiavitù da opere” che ingenera nelle coscienze), di performance, di happening... Come determinare, dunque, questo “qualcosa”? Come determinarlo mantenendolo indeterminato? Fin da principio, questa collaborazione giocai a non-nominarla, o soprannominarla, “un cameo”. Di fatti, alla mostra in cui indossai la parrucca composta dai capelli di Federico, ho partecipato dalla posizione, appartata e ambigua, eccentrica e orbitante, di un cameo. Il cameo, come sai, è la breve comparsa di un attore famoso all’interno di un film. Per la sua brevità, il cameo non viene accreditato come ruolo, per cui l’attore del cameo non compare nei titoli di coda insieme agli altri attori del cast, ma viene segnalato a parte, in appendice alla coda, in appendice all’appendice, per così dire. Il cameo situa l’attore sulla soglia del film, dentro e fuori il film stesso. Il film gli viene accreditato “un pò meno” che agli altri. Così, analogamente, la mostra mi venne accreditata “un pò meno” che agli altri artisti. Pur partecipando, io non firmai quella mostra col mio nome, non comparendo insieme agli altri artisti/attori della mostra/film, ma/eppure/comunque (come dovrei dire?) fui segnalato attraverso i vari canali di comunicazione dell’evento. Perché andò così? Devi sapere che quella mostra a Lucca riproponeva una mostra precedente, svoltasi a Berlino (o Monaco, non ricordo), a cui Federico aveva già partecipato, io no. Per quell’occasione, a Lucca, si era inoltre deciso il formato per cui ogni artista della mostra passata avrebbe invitato un nuovo artista, ma questo già prima che tra me e Federico nascesse l’idea della parrucca. Io, ne consegue, non potevo che venire strutturalmente escluso, spinto a margine. Fuori e dentro la mostra: con un cameo. La posizione “outlandish” (alla lettera, “out of land”) del cameo è quella della soglia e dell’imprevisto, che comporta il gioco insieme all’incertezza, e l’incertezza, lo scoprirai leggendo, è la mia personale esperienza di questa collaborazione.

P.s. Ah, dimenticavo. Io non sono famoso: il mio fu il cameo... di un ignavo.                  

 

Vengo alle tue domande.

 

Com’è nata l’idea della parrucca e successivamente della performance?

Idea e performance sono nate all’improvviso, in modo imprevisto, estemporaneo e contingente. Il tutto è accaduto su due piedi (quattro, con Federico), spoglio del processo per cui dapprima si progetta. Semmai il contrario, il processo inverso, per cui l’idea è venuta subito, precedendo l’intenzione, e a quel punto, visto che di mezzo c’era già un’idea, si è provato a inseguirla insieme, e da qui spontanea, divertita e inevitabile, la collaborazione. 

I fatti si sono svolti più o meno come nell’aneddoto che qui di seguito ti abbozzo.

A Lucca, una sera, mi trovavo a TerzoPiano. La mostra era normalmente noiosa. Impossibile venire distratto dalle opere esposte. La mia attenzione si portò sui presenti, nella speranza di scovare tra loro un volto amico. Lo spazio, piuttosto contenuto, quella sera era strapieno. Dopo aver visto tutto quello che non c’era da vedere, cioè dopo circa un minuto, mi dedicai all’unica vera eccellenza di TerzoPiano: il vino. Ogni volta, quelle poche, per fortuna, a TerzoPiano, incontrai sempre un eccelso rosè. Mentre bevevo il mio rosè in compagnia di un’amica trovata lì per caso, rannicchiato al termosifone della cucinetta, sopraggiunse Federico. Notai subito il taglio dei suoi capelli, corti più del solito, e gli chiesi: “Ma che te li sei rasati?”. Non ricordo bene cosa mi rispose, qualcosa di vago e diretto, saporitamente labronico, del tipo: “Deh, m’è presa voglia di radermeli deh”; ed io: “Ma come! Io farei di tutto per averli e tu che ce li hai te li tagli?”; e lui: “Te li spedisco deh!”. Non l’avesse mai detto... in quell’attimo i nostri sguardi si incrociarono, i nostri occhi si accesero e subito, insieme, intuimmo l’idea! Nacque così, e l’afferrammo al volo, mentre svolazzava tra noi come un uccelletto inesperto, col guscio ancora impigliato nel ciuffo. Convenimmo poi di realizzarla lì dov’era nata, a TerzoPiano, tanto più che di lì a breve Federico vi avrebbe esposto. Nell’intervallo precedente la mostra, i capelli di Federico fecero in tempo a ricrescere, al che Federico se li rase a zero, mi mandò una loro foto su WhatsApp, e me li spedì per posta in una graziosa scatoletta azzurra, con sopra impresso un Cupido d’oro pronto a scoccare la sua freccia. E la freccia scoccò davvero, perché cos’altro può mai desiderare, una palla da biliardo come me, se non di ricevere un mazzolin di capelli?

Federico dunque mi spedì i suoi capelli. Da lì in poi il processo di creazione della parrucca fu alquanto impegnativo. Non impazzii per un capello! Perché, cosa fece Federico? Federico mi spedì i suoi capelli compattati a forma di mattoncino, il che mi richiese (Dio sa!) la pazienza infinita di districarli e pettinarli. La parrucca, infatti, si crea a partire da una retina elastica, simile a una cuffia da nuoto, a cui si vanno ad applicare i capelli ciuffo per ciuffo, con una colla che seccando diventa trasparente. Per poter lavorare ciuffo per ciuffo, dovetti disfare l’artistico mattoncino di Federico. Se il buon Federico, misericordiosamente, si fosse limitato a spedirmi i capelli così come tagliati dal rasoio, io li avrei fin da subito ricevuti separati. Questo mi avrebbe risparmiato... due giorni di pettinatura ciuffi! Ahimè... 

In seguito, la sera del cameo, quando qualcuno, scoperta la parrucca (cercavamo di farla passare inosservata, così che il cameo conservasse il suo statuto incerto, anzitutto sul piano della visibilità... il segreto venne svelato a bassa voce, un iniziato alla volta: soltanto a fine serata i presenti erano al corrente di quell’intruso tra loro, la parrucca...), mi chiedeva come l’avessi realizzata, io rispondevo candidamente: “Bestemmiando”. Fu un lavoro d’infinita pazienza, di fede... Dio sa! 

 

In che modo si è documentato per la realizzazione della “parrucca”e che tipo di materiale ha utilizzato per assemblarla?

Mi sono documentato su Internet, ho seguito alcuni tutorial e un breve corso online che mi ha fatto entrare nel tecnico del settore, aprendomi un mondo, facendomi scoprire i vari gradi di complessità artigianale nella creazione di parrucche, ricorrendo a capelli sintetici o naturali, cuciti persino uno ad uno. Io ovviamente, essendo alla mia prima parrucca ed avendo un tempo limitato, ho dovuto optare per una soluzione tecnica più semplice, che mi permettesse comunque una buona resa finale. Ho quindi acquistato su Amazon alcune parrucche di media qualità, per osservarne dal vivo la struttura, dopodiché ho acquistato una retina elastica da parrucca, a cui ho applicato i cappelli di Federico ciuffo per ciuffo, con colla e pennello. In modo elementare ed efficace, ho realizzato una buona parrucca, che tuttora conservo, non più sulla mia testa, ma su una testa di polistirolo. 

Ricapitolando i materiali: retina elastica da parrucca; capelli di Federico; colla (applicata con pennello).  

 

Perché ha deciso di realizzare una documentazione fotografica dettagliata di tutto il processo creativo?

Premetto che l’espressione “processo creativo” è da disambiguare. Da una parte, il processo creativo in quanto processo prettamente “tecnico” di creazione della parrucca; dall’altra, il processo creativo in quanto processo propriamente “artistico”, che in questo caso coincide col primo momento d’intuizione dell’idea, a cui è seguita, in un secondo momento, la sua esecuzione, cioè il cameo. 

Tu mi domandi il perché della documentazione fotografica. Posso dirti che non ogni giorno un artista ti spedisce per posta i suoi capelli affinché tu ne faccia una parrucca che indosserai alla sua mostra. Dato lo stato d’eccezione, ho creduto opportuno testimoniare il processo di trattamento e trasformazione di quello speciale materiale organico di spedizione. Lo stesso Federico, inoltre, mi aveva chiesto di documentare ogni fase, il che ci sarebbe tornato utile in caso di pubblicazione.     

La documentazione fotografica ha avuto inizio con il processo di creazione della parrucca. E’ stata una documentazione spigliata, fatta scattando le foto direttamente da cellulare. Ho cercato di giocare con la documentazione, di trasmetterle quel piglio informale e ironico che mi pare affine al gusto di Federico. Mi ha divertito realizzarla perché l’ho fatta immaginando proprio di essere Federico. Come ho vestito il mio capo con i suoi capelli, così ho provato a vestire i miei occhi con il suo sguardo. Mi sono messo non solo nei suoi capelli, ma nei suoi panni. E non mi è affatto dispiaciuto vivere quella confusione identitaria, uscire (di me) a farmi due passi nei dintorni di Federico, disorientando quel destino d’anagrafe al quale non sento, né mai sentirò, d’aderire. 

Se Federico ti ha passato l’intera documentazione fotografica, senza farne una selezione, avrai notato che è punteggiata da alcune divagazioni fuorvianti rispetto al semplice processo tecnico di creazione della parrucca. Ci sono immagini che non riguardano direttamente quel processo ma che s’aggirano ironicamente nei suoi paraggi. Un esercizio d’ironia “cavalliniana”, se così si può dire. 

Devi sapere che, non abitando più in Toscana, per potermi presentare a Lucca il giorno d’inaugurazione della mostra, mi feci ospitare a Firenze a casa di un’amica. Lì, nella stanza in cui stavo, mi scattai alcune foto allo specchio, come fossi in camerino prima d’entrare in scena. Trovi anche quelle nella documentazione.

Seguì il viaggio in treno Firenze-Lucca, fatto indossando la parrucca. In quel viaggio ripongo il senso più personale dell’esperienza. Mi fece sperimentare, in prima persona, fino a che punto l’identità dipenda e s’aggrappi allo sguardo degli altri. La parrucca, una volta indossata (indossata male, perché la tenevo troppo sporgente, come avessi un’attaccatura di capelli inverosimilmente bassa sulla fronte... qualcuno poi mi disse che quell’acconciatura andava di moda tra i più giovani... mmm... mica ci credo sai...), appariva come un segno incerto alla vista, visto che, vista a distanza, non pareva una parrucca, ma, non appena qualcuno s’appressava, intravedevo nei suoi occhi affacciarsi una domanda, un punto interrogativo sovrapposto al punto nero delle sue pupille, per un lungo attimo fissate su di me... le ragazze, specialmente, più attente dei maschietti a quella strana capigliatura. Nel corso di quel viaggio, con più disagio di quanto credessi, scontai il riflesso dell’incertezza nello sguardo degli altri. Pensai: “l’incertezza è inabitabile”. L’incertezza è una condizione che richiede d’essere risolta, superata, conclusa. La domanda, se portata all’estremo scettico di un’incertezza assoluta, diviene mortificante, incompatibile con la sopravvivenza. Si può essere sensibili solo entro certi parametri, ed insensibili oltre di essi. La sopravvivenza, la “certezza vitale”, si scalda e radica nell’insensibilità specie-specifica.     

 

Come opera è affine alla sua attuale attività o se ne discosta?

E’ affine “in quanto” divergente. L’attitudine generale della mia ricerca è quella di divergere da sé, così da poter intercettare il mondo là fuori, e far respirare un pò della sua vita in quello che creo. Per me è cruciale l’attimo, essere nel presente come un radar che intercetta incontri, incidenti, imprevisti, errori, come quello con Federico. “Errori, portali di scoperta” (Ulisse, James Joyce). Essere in ascolto degli eventi intorno a me, viverli sul piano affettivo e insieme critico, decostruttivo. Le “cose” che accadono, nel mistero della loro necessità indeterminata, sono per me uno stimolo continuo all’osservazione, alla riflessione, alla creazione. La mia ricerca scorre su almeno due piani: una riflessione puntuale, puntigliosa, pignola; e la cura amorosa di un'apertura panica verso il vivente. Il caso nutre sempre quello che creo, lo riformula di continuo, che io lo voglia o no, e più spesso a dispetto delle mie intenzioni. 

Nel giorno seguente al cameo, l’amica che mi ospitava a Firenze, anche lei giovane artista, rifletteva sull’opposizione estrema, intima ed interna alla mia ricerca: “E’ interessante come tu, che tendi a strutturare la riflessione, ti esponi poi così tanto al caso...”. E’ sempre operante in me questa contraddizione di riflessione strutturante e caso contingente, e forse dovrei parlare di chiaroscuro, vista la rotondità che conferisce alla mia ricerca, che ne ha bisogno come una mela di luce e ombra per apparire tonda. Si può dire, per quanto non comune, che una mela “si contraddice” trapassando dalla luce all’ombra, e viceversa. Un chiaroscuro, in fondo, è una contraddizione di luce e ombra. Una contraddizione di superficie. 

Questa collaborazione è stata occasionale, legata a un episodio, non avrei mai pensato di farla. A posteriori, mi ritrovo spesso in queste parole: “non avrei mai pensato di farlo”. Pensare di fare... pensare, e fare. Pare che il fare, l’entrata in campo di un’intenzione, finisca sempre per variare, congedare e disattendere la sua intenzione stessa. Un progetto si realizza solo a patto di essere riformulato, driblato, scartato, smentito. Ogni progetto, per potersi realizzare, deve trovare il suo modo particolare di fallire: “fallimento”, o patto segreto tra il creatore e la sua creazione...  perché “l’intento è nostro, ma l’esito... no” (Amleto, William Shakespeare).

La mia ricerca si svolge a patto di potersi smentire. Questa è la condizione: che la forma non si depositi in essere ma si disponga a divenire, sempre virtuale e in potenza, scalzando se stessa. Questa è la non-forma della mia ricerca. 

Credo che questa sia anche la condizione materiale che Federico pone alle sue forme, le quali, smentendosi, non possono persistere, resistere e restare, se non come: rovine. Avanzi, scarti, resti infinitamente rimangiati, spiluccati e risputati. Pani sbriciolati, molliche. (Anatomia companata...)

Ecco la felice contraddizione di Federico, il suo superbo chiaroscuro: il lavorio artigianale messo in croce da un gesto nudo, schietto, ignorante, che si nega al compiacimento del virtuosismo, esponendosi invece ai tarli voraci d’una verace riscrittura, le cui schegge, trascinate dalla corrente oltre il margine estremo, estuano infine nel grande mare aperto dell’analfabetismo. 

Ecco Federico: un artigiano analfabeta, obiettore della propria coscienza, che scalza magistralmente se stesso in ogni gesto del suo lavorio.

Questo è il mio ritratto di Gabriele Cavallini o Federico Gaburro. 

 

Cosa l’ha portato ad intraprendere questa collaborazione con Cavallini?

Gabriele e Federico sono due pesci fortunati: hanno abboccato all’amo della stessa idea.

Questa collaborazione non l’abbiamo mai intrapresa, semmai è la collaborazione che ha intra-preso noi, prendendo me e Federico nel tra di quell’attimo a Lucca, irretendoci insieme: “Te li spedisco deh!”. Ci è avvenuta e ci si è appresa addosso prim’ancora che potessimo investirla d’intenzioni, desideri, riflessioni. Ci è venuta incontro scintillando, con le ali d’una farfalla impigliatasi per caso nel retino, quand’io, sovrapensiero, riposavo nell’ebbrezza d’un rosè. 

 

La collaborazione è stata lineare o avete avuto dei momenti di contrasto per idee divergenti?

La collaborazione ha avuto più momenti. Al principio è stata molto spontanea, Federico ed io seguivamo la stessa intuizione. Poi, ha avuto un momento di crisi, quando io ero incerto se realizzare o meno il cameo. Per il resto, non parlerei di momenti di contrasto o idee divergenti ma di un confronto, necessario a definire quale fosse il miglior modo di presentarci a TerzoPiano. Non vivendo Federico ed io nella stessa regione, il confronto è avvenuto a distanza, perlopiù via WhatsApp, di cui ti riporto qui di seguito un breve passaggio:

 

[01:36, 27/11/2018] Federico Cavallini: Dovremo  fare una pubblicazione in futuro

[08:29, 27/11/2018] Gabriele Germano Gaburro: Volentieri

[08:36, 27/11/2018] Gabriele Germano Gaburro: Le immagini che ti ho mandato sono una selezione di molte altre immagini, più di 200, che sono scarti, ripetizioni; pensando alla tua estetica dello scarto, alla tua raccolta di immagini scattate dai visitatori per behind the glasses, ho pensato che potrebbero interessarti. Dipenderà da che taglio vorremo dare all'insieme.

[09:40, 27/11/2018] Gabriele Germano Gaburro: Proposta delinquenziale: e se a fine serata, a Lucca, appesa al chiodino, gli rifilassimo una parrucca finta?

[09:41, 27/11/2018] Gabriele Germano Gaburro: Quella parrucca finta non sarebbe la perfetta parodia di Terzo Piano? Mettendola in vendita, venderemmo l'idea, immateriale, e il racconto, fatto di parole, del nostro scambio di battute da cui è nata l'idea. Così eviteremmo di "oggettificare", di tradurre e tradire in oggetto, l'atto della performance. Oltre a rivelare il feticismo dell'originale, e più in generale dell'oggetto in quanto oggetto, dell'oggetto in sé.

[09:42, 27/11/2018] Gabriele Germano Gaburro: "Parrucca vera": è un paradosso! Interessante speculare su questa distinzione, sottile ed effimera come i capelli di cui consiste: "parrucca finta", "parrucca vera"... ma "io", per un attimo, mi sono sentito più "io" con i tuoi capelli che senza, quindi la ricerca dell'identità, che appartiene all'età adulta del disincanto, è una ricerca dell'immaginario, comporta finzione... quindi cosa è "vero", cosa "finto"? La "finzione" è inevitabile, necessaria, trasversale, e di fatti mette in scacco la stessa opposizione che in origine la definisce.

[09:42, 27/11/2018] Gabriele Germano Gaburro: Tenendoci la "parrucca vera", infine, avremmo tutto il tempo di far maturare e sbocciare il delirio intorno ai tuoi capelli, in vista e svista della pubblicazione.

 

Allo scambio WhatsApp che hai appena letto fece seguito una chiamata. Federico mi disse che l’idea di una “parrucca finta”, da lasciare a TerzoPiano, gli sapeva troppo di boutade. Ero d’accordo con lui, per cui la scartammo. Federico era molto sensibile non solo al lato ironico del cameo, ma anche al suo lato triste. Ricordo che a Lucca, la sera del cameo, mi disse a mezza voce: “Non capiscono... non capiscono perché un giovane deve indossare una parrucca con i capelli brizzolati...”. Federico, in quel momento, credo pensasse al sistema e al mercato dell’arte, o in genere alla società italiana, dove i giovani sono sempre meno giovani, perché non possono esserlo, costretti a recitare la parte di uomini di mezz’età, sempre compiacenti pur di avere un ruolo, un collocamento, un lavoro. Virgilio profetizzava un tempo in cui gli uomini, stanchi di vivere, sarebbero nati con i capelli bianchi. Io, pur avendo Cioran nel sangue e Buddha nelle ossa, non credo sia ancora arrivato quel tempo, ma una cosa è certa: l’Italia è un paese per vecchi.  

 

Se qualche punto delle mie risposte non ti fosse chiaro, ci possiamo chiamare. Basta che ci diamo appuntamento, perché in genere sono offline e non ho la segreteria telefonica, per cui se perdo una chiamata non so chi mi abbia cercato. Inoltre, ho un pessimo piano tariffario che mi fa esaurire quasi subito il credito che impiego nelle telefonate, lasciandomi invece un margine più discreto nell’uso di Internet. 

Una chiamata su WhatsApp sarebbe il top. 

Ecco il mio numero: ................

 

Ti allego alla mail due immagini: una ritrae Gabriele Cavallini o Federico Gaburro con la parruca, dovresti già averla; l’altra ritrae Marcel Duchamp o Rrose Sélavy, anche lui/lei con la parruca e una certa aria da Gioconda sorridente, bionda e boccolona...

 

Infine, ti consiglio di ascoltare questo audio dell’archivio FAR (Fondazione Antonio Ratti): una conferenza tenuta da Jimmie Durham, “silly man” come il Nostro...

Ecco il link: https://soundcloud.com/user-570865754-171091794/rewind-006-jimmie-durham-stones-rejected-by-the-builder 

 

Buon lavoro per la tua tesi 

Gabriele